di Carlo Alberto Bucci,
la Repubblica, ed. Roma, 22 aprile 2017.
Piloni abbattuti per interrompere la linea dell’acqua. Campate murate con blocchetti di peperino. Due indizi che fanno ipotizzare la manomissione dell’Acquedotto dei Quintili da parte degli Ostrogoti per assetare Roma sotto assedio. Gli archeologi dello Stato hanno messo in evidenza l’opera di anonimi, barbari guastatori, durante i lavori di consolidamento e restauro dei 40 piloni (sui 120 ancora in piedi) e delle 38 arcate dell’Acquedotto che congiunge l’Appia nuova all’antica. «Una delle ipotesi è che si tratti degli interventi messi in atto nel 537 da Vitige durante l’assedio per tagliare i rifornimenti idrici a Roma e costringere così il generale bizantino Belisario alla resa», racconta Rita Paris.
Paris è la direttrice del neo Parco archeologico dell’Appia antica dopo che per venti anni ha curato la stessa zona per conto della Soprintendenza. E ora ha il difficile compito di far marciare da sola (tra tutela e valorizzazione) la Regina viarum, resa autonoma dal resto dell’archeologia di Roma dalla riforma Franceschini.
Assediare, e assetare, l’Urbe, dunque. Questo fece per un anno e 9 giorni, senza riuscire a prenderla, Vitige con i suoi 30mila uomini, contro i 5000 bizantini di Belisario rinserrati nelle mura aureliane e pronti a colpire con i raid della valorosa cavalleria e degli arcieri. Lo racconta Procopio di Cesarea nella Guerra gotica: “Con l’intento di costruire un campo fortificato, Vitige chiuse le arcate di tratti degli acquedotti Claudio e Marcio (quelli dell’attuale Parco degli acquedotti, ndr) con terra e pietra, realizzando un fortilizio naturale in cui fece accampare non meno di 7000 uomini, al fine di bloccare l’afflusso di rifornimenti all’Urbe dalla via Appia e dalla via Latina”. Ma i romani-bizantini non furono presi né per fame né per sete. E tra i 14 acquedotti dell’antica Roma messi fuori uso dagli Ostrogoti (e per la stragrande maggioranza mai più riattivati) ci potrebbe quindi essere anche quello che, per convenzione, continuiamo a chiamare “dei Quintili” — poiché è documentato il suo interramento fino a rifornire la cisterna della villa imperiale di Commodo — «ma che molto probabilmente riforniva tutta la via Appia, con i suoi sepolcri e le sue stazioni di posta: nel corso dei banchetti e delle libagioni per i morti, i romani non si portavano certo l’acqua da casa», dice l’archeologo Riccardo Frontoni, con gli architetti Carlo Celia e Giacomo Restante al lavoro per il consolidamento dei piloni su cui correva l’acqua dentro lo speco.
Costato circa 700.000 euro, il restauro in corso di completamento di questa imponente struttura che attraversa con le sue eleganti “gobbe” la campagna romana, prevede la sistemazione e la pulizia dei crolli, per consentire la comprensione dell’area archeologica in piena sicurezza. Finita la bonifica, infatti, il progetto è quello di far sì che i circa 720 metri dell’Acquedotto dei Quintili (in origine composto da 150 arcate) siano visitabili. L’antica linea dell’acqua dell’Appia (forse non una derivazione dell’Anio Novus, che sfruttava le strutture di Claudio, ma dell’Aqua Iulia realizzata venti anni prima, nel 33 d.C., da Agrippa, genero di Augusto) potrà così essere seguita dai visitatori del parco, anche in terreni privati, in accordo con i proprietari. «Sì, l’Acquedotto — spiega Paris — si trova per la maggior parte in terreni di privati, ma siamo pronti a un accordo per ricucire il percorso che dall’Appia nuova, poco prima del Gra, porta all’antica, presso Torre Selce».
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